“Il mio primo è il cuore” – Recensione alla silloge di Luisa Di Francesco

“Il mio primo è il cuore” – Recensione alla silloge di Luisa Di Francesco

"Il mio primo è il cuore" - Silloge poetica di Luisa Di Francesco

Recensione a cura di Moreno Stracci
Storico e critico d'arte e letterario

 

La Poesia di Luisa Di Francesco rappresenta nel panorama della letteratura contemporanea una voce nuova che mantiene, tuttavia, saldo il legame con le esperienze letterarie della tradizione, delle quali eredita e fa propri certi linguaggi, certe immagini e atteggiamenti pur mantenendosi lontana dalla deferenza e dimostrando la sua autonomia. Questo accredita e definisce l’Arte della Di Francesco come un’esperienza capace di attualizzare, vivificandolo, il ruolo ancora potentissimo della Poesia. Un’Arte che sopravvive alla nostra epoca, permeata di comunicazione invasiva e superficiale, grazie alla verità del messaggio di cui è portatrice, al garbo con il quale si dona e che, rifiutando l’aggressività dell’espressione contemporanea, offre a chi vi si avvicina la possibilità di una comunicazione autentica ossia di un condividere, di una partecipazione priva di minacce che è il fondamento di ogni relazione alla quale tutti noi, più o meno consapevolmente, aspiriamo.  

La Poesia, e l’Arte tutta, è un atto di reciproca fiducia, è una mensa alla quale siamo tutti invitati a patto che ci presentiamo con lealtà e cuore aperto. In questa prospettiva, la Poesia di Luisa Di Francesco si mostra particolarmente generosa. Non corrotta da sterili esercizi di stile ma abilmente costruita con perizia letteraria, restituisce nudo il mondo interiore della poetessa, la sua visione della vita, le sue esperienze: i traguardi raggiunti e i fallimenti, le sicurezze guadagnate e le paure, i desideri ancora inconfessati e le angosce soffocate, la denuncia e la rabbia, la volontà di adempiere al compito etico al quale ognuno di noi è chiamato. Tutto questo è supportato da una raffinatezza di forma chiaramente vocata alla mimesi linguistica e a una pluralità di espressioni che instaurano un fruttuoso rapporto di partecipazione tra la realtà oggettiva e il sentire individuale e collettivo. 

La silloge si apre con una citazione della poetessa Alda Merini tratta dal testo Ah se almeno potessi. Un testo che raccoglie in una sintesi straordinaria gli elementi essenziali della poetica meriniana, alla quale la Di Francesco si dichiara gratamente legata: la funzione gnoseologica del corpo, il ruolo centrale dell’amore come mezzo escatologico sfuggente ma inderogabile, quel sottile mal di vivere che conduce il Poeta sulla strada di una solitudine a volte sofferta ma in verità considerata come qualità forgiante del vivere poetico. Sono questi elementi che ritroviamo, pur con decise note distintive, nella Poesia della Di Francesco, che tuttavia si presenta legittimamente con un orizzonte diverso: se la scrittura della Merini si risolve, con modi meravigliosi, in un’esperienza primariamente autopoietica e atemporale, l’Arte della Di Francesco si apre al nostro tempo, alle istanze della contemporaneità. Nasce così una Poesia che, pur fondata su una presenza fortissima dell’Io poetico, accoglie con determinazione temi di natura sociale quali, ad esempio, il disagio giovanile, che la poetessa ha potuto ben conoscere nella sua professione.  

Alla Merini, la Di Francesco dedica il testo Tra due mari dal quale emergono due versi che ci confessano con tenerezza il ruolo della poesia meriniana nell’esperienza umana della Di Francesco: 

Ti cerco […] 

in quelle parole autentiche 

che han curato le mie orecchie. (pp. 30-31) 

Un testo che allo stesso tempo è un’espressione di gratitudine e un manifesto di poetica che richiama il ruolo della Poesia come antidoto che conforta chi ne fa una preziosa amica, sia come lettore, sia come creatore. Un ruolo, questo, che la Di Francesco afferma con ampiezza di respiro e immagini di rara esattezza nel testo Associazioni poetiche dove leggiamo:

Poeta mi ricorda pietas

china la fronte e salva i vinti

cura gli infermi, sollevia i morenti.

[…]

Poeta è la pietas della pietra

che chiude la porta al dolore

e ne fa voce -poema- del sentire (p. 78)

Non è a caso che la Di Francesco abbia deciso di inserire la dedica alla Merini tra due testi che in qualche maniera ne compongono una interessante cornice e che sintetizzano il suo esistenzialismo e la direzione ontica. 

Il testo che precede, intitolato L’immobilità del cuore (tema carissimo alla Merini), si apre con i versi: 

Certe volte ti perdo 

lungo quel corso 

che chiamano spesso 

vivere inesperto. (p. 29)

Queste parole ci chiamano a riflettere su una questione che dobbiamo sforzarci di accogliere: il mestiere di vivere non permette un apprendimento in differita, la nostra natura e le modalità con le quali ci rapportiamo al mondo si fanno a noi comprensibili solo nell’esercizio costante del vivere. 

Il testo che segue la dedica alla Merini, A punta di matita, contiene una domanda tipicamente meriniana, che è poi una domanda di tutta l’arte e in generale di un’umanità illuminata: 

A che servo se non scrivo linea alcuna 

se son vuota di ciò che è la mia natura? (p. 32)

La domanda della Di Francesco è una di quelle scomode: qual è il valore di una persona se non incarna ciò che è? Se non trova in sé ciò che la definisce? La poetessa intravede una possibile risposta e chiude il testo con un’affermazione di consapevolezza, non sempre raggiunta nell’arte e nella vita: 

Perché non è come sono o come mi sento 

ma quanto so reagire per dar nuovo senso. (ibid.)

Questa consapevolezza, che spesso affiora nella Poesia della Di Francesco, non definisce, col rischio di renderla sterile, la natura della sua vicenda artistica. La sua Poesia rimane una libera esperienza di ricerca fondata sul domandare più che sul trovare risposte, nutrita propriamente da quel senso di meraviglia e paura verso il divenire delle cose che la filosofia antica pone alla base dell’indagare, attributo determinante della condizione umana. Tuttavia, se l’indagare filosofico pone le sue basi sulla ragione, l’Arte e in particolare la Poesia, grazie all’immediatezza del mezzo linguistico, non può che affidarsi al sentire e dunque al cuore. Quel cuore al quale la Di Francesco consacra questa silloge e la sua Poesia tutta, donandoci un’attendibile e mai banale chiave di lettura del suo mondo, nel quale risuonano potenti le parole che intitolano la raccolta: Il mio primo è il cuore.  

Il titolo è tratto da un componimento posto poco dopo la metà della silloge (p.74). Questo testo si compone di immagini chiare e nette che generano senza intermediari dal sentire della poetessa. Le immagini sono giustapposte in un continuo magistralmente musicato di ricordi, sensazioni e visioni che si liberano, non potendole sopportare, delle stringenti regole della sintassi e della deduzione. Così facendo, la poetessa ci permette di afferrare la vita, la sua e la nostra, e di riportarla alla sua natura vera, quella delle emozioni. Nasce, in questo ambiente, una potentissima autodefinizione di Luisa, creatura poetica che tra “il primo amore” e “l’ultimo saluto” sostiene con fermezza: “In tutto quel che scuote/il mio primo è il cuore”. Tra queste parole, ve ne è una che emerge e che è importante saper  ascoltare e comprendere: scuote. Si aprono qui almeno due significati: se da una parte, troviamo il significato di agitare più o meno violentemente, sicuramente inteso dalla poetessa, dall’altra possiamo assumere, legittimamente e sempre insieme all’autrice, il senso di risvegliare, richiamare alla vita, all’azione, nella consapevolezza che il bene e il male, la felicità e il soffrire sono aspetti fondanti dell’esistenza, scaturenti non da ciò che ci accade ma da come agiamo e rispondiamo, per poi evolvere. Per la Di Francesco la strada è chiara: il corpo, e dunque i sensi, per conoscere, il cuore per comprendere, dove entrambi incarnano e allo stesso tempo trascendono la materialità per giungere ai luoghi di pura energia dove l’antico dualismo si dissolve in una perfetta unicità.   

Nascono così i più bei componimenti di questa raccolta come quelli dedicati alla sensualità, all’amore e al sé corporeo: Temo, Fame ignorata, Ti cerco nel ventre, Nulla e tutto, Chissà cosa sogni; le tenerissime e dolorose dediche alla madre; le poesie che, pur senza ripudiarli, soffrono i limiti, o meglio i tormenti, del manifestarsi nella materia, come la meravigliosa Eletta dedicata all’anima e alla necessità di trovare per lei, o forse riscoprire, quel luogo, quella casa oltre lo spazio fisico nella quale “esistere sicura/lontano da ciò che le fa più paura”. Quella paura ben confessata nell’intimissima poesia Ho paura di dormire che si chiude con parole di sconcertante lirismo:

Ho paura di dormire 

di sognare 

di perdere 

di perdermi 

e di non voler tornare. (p. 46)

La Poesia della Di Francesco è una testimone eccellente del nostro essere umani, esseri fatti di sogni e disinganno, di slanci seducenti e limiti che a volte ci sconfortano e altre ci salvano, di stanchezze e risoluzioni, di denunce e innocenze gridate, di piacere, inquietudine, appagamento, di futuro, di amore, di vita. Con la sua Poesia, la Di Francesco afferma con chiarezza di voce e senza traccia alcuna di arroganza: io sono viva. E in questo suo vivere, compie un sacrificio meravigliante: donarsi al mondo attraverso la parola.  


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©2022 Moreno Stracci
Storico e critico d’arte e letterario
Presidente A.C. Quia
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Stracci, M. (2022), “Il mio primo è il cuore – recensione alla silloge di Luisa Di Francesco”, quiamagazine.it (online), 8 febbraio, <https://www.quiamagazine.it/recensionedifrancesco/>

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