I popoli incontattati, tra etica e biologia
Nel cuore delle regioni remote di foreste impenetrabili e terre incontaminate del nostro pianeta, esistono comunità umane che continuano a vivere al di fuori del contatto con il mondo esterno, custodi del mondo naturale. Questi popoli, noti anche come popoli indigeni isolati, rappresentano una singolarità scientifica e un dilemma etico che solleva importanti domande sulla preservazione della loro cultura, della loro biologia e del loro habitat. Sono più di 100 le tribù incontattate attualmente esistenti che hanno mantenuto uno stile di vita tradizionale e isolato fino ad oggi.
Secondo Survival International, l’organizzazione mondiale per i diritti dei popoli indigeni fondata a Londra nel 1969, questi popoli vivono in regioni remote e inaccessibili distribuite in Asia, Oceania e America meridionale. La loro esistenza è spesso conosciuta solo attraverso avvistamenti occasionali indiretti o incontri casuali con altre comunità indigene.
Ma quando si guarda a queste popolazioni non si deve pensare a civiltà arretrate retaggio di un remoto passato: sono parte dell’epoca contemporanea, sono un presente che rappresenta e grida a gran voce la ricchezza della diversità umana, con la loro cultura e il loro livello tecnologico e sociale.
Dai Sentinellesi nelle isole Andamane indiane, che non conoscono il fuoco, agli Awà dell’Amazzonia brasiliana che utilizzano la resina dell’albero maçaranduba per illuminare le case e i villaggi, dai Kawahiva, abili pescatori con le nasse ai Korowai che costruiscono le case sugli alberi, queste tribù sono completamente autosufficienti a dispetto della nostra civiltà.
Il dubbio ruota attorno a una domanda fondamentale: è etico cercare di contattarli o è meglio rispettare la loro scelta di rimanere isolati? Le argomentazioni a favore del rispetto della loro volontà si basano sulla protezione della loro cultura, della loro autonomia e sulla preservazione delle loro conoscenze tradizionali. Il contatto con il mondo esterno potrebbe esporli a malattie, sradicare le loro tradizioni fino a minacciare la loro sopravvivenza.
“Prima non sapevamo nemmeno cosa fosse un raffreddore. La metà di noi sono morti. È morta la metà del mio popolo”
Membro del popolo Murunahua, Perù (fonte Survival International)
L’isolamento di questi popoli rappresenta un’enorme opportunità per studiare l’evoluzione, la biologia umana e le dinamiche sociali in un contesto che non è stato influenzato dalla modernità.
Tuttavia, questo solleva un altro dilemma etico: come bilanciare la ricerca scientifica con il rispetto per i diritti e il benessere di queste comunità?
La deforestazione, l’estrazione delle risorse naturali e l’espansione delle società industrializzate rappresentano crescenti minacce per i territori in cui vivono i popoli incontattati. La loro terra è spesso ricca di risorse preziose, ma l’accesso a queste risorse può portare allo sfruttamento e alla distruzione del loro habitat. Molte organizzazioni e governi si sono impegnati a proteggere le aree in cui vivono i popoli non contattati, cercando di garantire che le regioni rimangano intoccate da intrusi esterni. Per sfuggire al genocidio e sopravvivere alle invasioni dei latifondisti, allevatori, agricoltori, cercatori d’oro e di materie prime o taglialegna che occupano via via sempre più porzioni dei loro territori, sono costretti a rifugiarsi in luoghi sempre più sperduti o a venire in contatto con la nostra civiltà moderna.
La questione di come equilibrare la preservazione della loro autonomia e cultura con la ricerca scientifica e la protezione dell’ambiente rimane aperta ma la risposta richiederà indubbiamente una combinazione di rispetto, collaborazione e sforzi per proteggere queste popolazioni e i loro territori dall’invasione esterna.
Chiara Morelli
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