La trasfigurazione di Cristo
La trasfigurazione di Gesù è una festa religiosa celebrata dalla Chiesa Cattolica, Ortodossa e da altre confessioni cristiane. La fissazione della data della festa al 6 agosto deriva dalla tradizione secondo la quale l’episodio narrato dai Vangeli sarebbe avvenuto quaranta giorni prima della crocifissione di Gesù. In Oriente si celebrava già la festa dell’Esaltazione della Santa Croce il 14 settembre. La data della festa della trasfigurazione fu quindi stabilita a ritroso.
La trasfigurazione di Cristo, ossia quell’episodio in cui Gesù mostra la sua natura divina ai discepoli è narrata nei vangeli sinottici di Marco, Matteo e Luca. Nel vangelo di Matteo, 17:1-8, leggiamo:
1 Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. 2 E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 3 Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4 Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 5 Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». 6 All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7 Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». 8 Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.9 Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti». (CEI:2008)
A partire da questi versetti, si sviluppò fin dal VI secolo una ricca iconografia che comprende i seguenti elementi:
– il luogo: l’alto monte, identificato con il Monte Tabor;
– i personaggi: Cristo, Pietro, Giacomo, Giovanni, i profeti Mosè ed Elia;
– la narrazione: la trasfigurazione del volto di Cristo, la comparsa della nube, l’accasciarsi dei discepoli.
Tradizionalmente si individuano due modi iconografici in cui la scena è stata rappresentata nell’arte. Il primo mostra Cristo su una piccola altura, affiancato in conversazione dai profeti. I discepoli testimoni dell’avvenimento sono raffigurati distesi a terra e intenti a ripararsi gli occhi dall’intensa luce emanata da Cristo e dalla nube.
Appartiene a questo modo più aderente al racconto biblico, tra le altre, la Trasfigurazione (in alto) di Giovanni Bellini (1427/30-1516), conservata oggi nel museo Correr di Venezia.
Nell’opera si distinguono tre livelli di rappresentazione: troviamo in basso un prato con delle piccole piante, simbolo del mondo naturale; immediatamente sopra troviamo il livello del mondo umano, incarnato dalle tre figure distese, quasi svenute (Pietro, Giacomo e Giovanni); infine, vediamo il livello divino con Cristo al centro e Mosè ed Elia ai lati. La luce, che proviene dall’alto, sembra quasi voler richiamare l’umanità alla sua missione, risvegliandola dal torpore nel quale è caduta.
Il secondo modo di raffigurare la scena della trasfigurazione è quello rappresentato per la prima volta della Trasfigurazione (foto a destra) di Raffaello Sanzio (1483-1520), ultima opera dell’artista oggi conservata nella Pinacoteca Vaticana. Raffaello decise di unire l’episodio al racconto della Guarigione dell’ossesso.
In Matteo 17:14-18 si legge:
14 Appena ritornati presso la folla, si avvicinò a Gesù un uomo che gli si gettò in ginocchio 15 e disse: “Signore, abbi pietà di mio figlio! È epilettico e soffre molto; cade spesso nel fuoco e sovente nell’acqua. 16 L’ho portato dai tuoi discepoli, ma non sono riusciti a guarirlo”. 17 E Gesù rispose: “O generazione incredula e perversa! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo qui da me”. 18 Gesù lo minacciò e il demonio uscì da lui, e da quel momento il ragazzo fu guarito.
La tavola di Raffaello è strutturata su due livelli: in quello inferiore troviamo la narrazione della guarigione del ragazzo, caratterizzata da una struttura asimmetrica, da una forte dinamicità dell’azione e da colori scuri, contrasti cromatici accessi e da un uso delle ombre che sembra presagire l’operazione caravaggesca; nella parte superiore, invece, Raffaello rappresenta la scena della trasfigurazione che, in forte contrasto con la parte bassa del dipinto, si caratterizza per una estatica staticità, colori luminosi nelle tinte del blu e del bianco, a indicare il momentaneo distacco di Cristo dalla materia, da una struttura simmetrica chiusa, della quale Cristo in levitazione rappresenta l’asse. L’opera ha è caratterizzata da una grandissima forza drammatica e lo spettatore si trova di fronta a una scena che rapisce: iniziando a guardarla dal basso a sinistra, siamo subito portati a seguire gli occhi dei personaggi che guardano a destra verso l’ossesso, con volti che vanno dallo stupore al terrore, per poi accorgersi delle mani tese verso il Cristo a indicare il prodigio che sta avvenendo sulla collinetta. È un’opera, questa, che a guardarla con attenzione porta al rapimento. Qui non c’è compostezza e grazia, c’è impetuoso attonimento.
L’opera rimase incompiuta e venne terminata nella parte inferiore dal pittore e architetto Giulio Romano
(1492/99-1546). Alla morte di Raffaello, la tavola fu posta accanto al suo corpo.
Come racconta il Vasari: “Gli misero alla morte, nella sala ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinal de’ Medici: la quale opera, nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava”.
La rappresentazione di Raffaello fu ripresa, tra gli altri, da Rubens nella sua Trasfigurazione del 1604-05, dove il contrasto tra le due scene narrate si fa meno rigido, sia a livello cromatico sia nella drammaticità, e dove Cristo occupa chiaramente il punto focale dal quale la scena complessiva scaturisce.
Come affermò Oscar Wilde: “Esistono due modi per non apprezzare l’Arte. Il primo consiste nel non apprezzarla. Il secondo nell’apprezzarla con razionalità.”
In fin dei conti, a volte bisogna semplicemente ascoltare un’opera perché questa scaturisca in noi piccole illuminazioni. La razionalità a volte ci soffoca e ci fa perdere occasioni preziose di crescita. Bisogna avere il coraggio di abbandonare le certezze illusorie che la razionalità ci fornisce e uscire allo scoperto nel vulnerabile mondo delle emozioni.
Moreno Stracci
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