M. Serao: Dualismo (prima 1)
Dualismo
Novella tratta dalla raccolta "La moglie di un grand'uomo" di Matilde Serao (1856-1927)
PRIMA PARTE
Flavia si sentiva la coscienza quieta: neppure l’ombra di un piccolo rimorso; quello che le accadeva era molto strano, ma senza un briciolo di sua colpa.
Quindi scuoteva la bella testa bionda, si stringeva lievemente nelle spalle e andava al ballo. Perchè poi adempiva agli obblighi della sua posizione con la massima buona volontà, anzi sorridendo sempre; alle feste ballava dalle undici della sera alle quattro del mattino lacerando gaiamente il suo lungo strascico, senza mai essere stanca: non dava mai in quei languidi lamenti delle signore contro i vestiti troppo stretti, i tacchi troppo alti, i cappelli troppo grandi; l’estate si divertiva molto sulle spiaggie, ai bagni, ai concerti improvvisati, seguiti dai soliti quattro salti; di autunno le piaceva la campagna con le escursioni sulle colline, il latte fresco, le serotine partite di scacchi, la vendemmia ed il fieno; l’inverno la inebriava coi teatri e le veglie prolungate. Passava senza intervalli per la fiera di beneficenza, lo skating, i coriandoli e le prediche al Gesù Nuovo. Stava bene dappertutto. Una natura felice se mai ve ne furono; una gioventù fresca, bionda, azzurra, serena: due uomini l’amavano, essa li amava ambidue, ma non si faceva rimproveri. Era la fatalità, l’ananke, per dirla in greco.
Il primo – per epoca – era un giovanotto, un po’ parente, un po’ amico della famiglia di Flavia; di condizione uguale per ricchezza e per nobiltà; rispondeva al fiero nome di Leone, e, quasi a mantenerne intero il significato, era aristocratico, fino ai capelli. Nè qui si tratta del solito tipo di cretino fannullone e gonfio, vecchio da quanto il mondo, tipo perfettamente ingiusto: Leone, cuore ed ingegno ne aveva, non in modo eccezionale, ma ne aveva, e se li sottometteva alle leggi della sua società, non bisognava fargliene un torto; ci era nato, non sapeva staccarsene. Era sempre compito, sempre buono ed affabile, con un grazioso sorriso sulle labbra; alcuni lo trovavano troppo eguale. Pure il rispetto che portava alle donne vecchie, il non averne mai compromessa una giovane, un certo senso di lealtà che traluceva da ogni suo atto, avrebbero fatto perdonare qualunque difetto anche più grande. Sovratutto egli rifuggiva dagli slanci, dagli entusiasmi incomposti, dalle passioni senza regola; amatore profondo della pace, credo non intendesse le ambizioni sfrenate, le altezze inaccessibili; le sublimità lo meravigliano, senza attirarlo. Si era fatto un piano di vita quieta, calma, scorrevole: avrebbe prima goduto la gioventù libera, poi si sarebbe ammogliato, senza troppe furie, con una persona simpatica, poi. Intanto cercava la persona simpatica.
Così una notte, fra una polka ed una gita al buffet fece a Flavia una mezza dichiarazione che spuntava da un complimento, sussurrato più che detto. Lì per lì ci risero, se ne scordarono; si rividero, ricominciarono, si lasciarono andare alla china: una parolina furtiva, un’allusione mal celata, un sorriso speciale, un brano di conversazione riannodata ogni tanto, ecco tutto. Eppure amore era quello, amore come essi lo intendevano: cioè, amore fine, leggero profumato, sottile, lasciato, ripreso con un’ombra di gelosia per rinforzarlo, ma niente più che un’ombra; amore palliduccio, ma che continuava a vivere bene, come molte persone pallide.
Bastava alla felicità di Leone che Flavia gli inviasse ogni mattina un bigliettino roseo, con tre righe di un caratterino delicato, dove ci fosse il programma della giornata; bastava che al momento dell’incontro fortuito, ella lo salutasse, con quel tale inchino della testa accordato a lui solo; bastava che al ballo gli serbasse sempre il primo valzer; che prima di prendere una grave decisione, come la disposizione di una sala, i colori di un abito, una gita in campagna, egli fosse interrogato in proposito. Pel resto la lasciava libera, non esigeva nulla: egli era guidato sempre dal timore del ridicolo, teneva moltissimo alle apparenze e non voleva fare la brutta figura dell’amante geloso; non si adombrava punto dei numerosi ammiratori che circondavano Flavia, anzi dirò che ne provava una specie di contento; sapeva che il mondo lo sapeva e questo era sufficiente a rassicurarlo.
Anche la fanciulla si contentava facilmente: trovarlo esatto ai ritrovi, sempre il primo, ascoltare quelle dolci parole ch’egli sapeva dire così bene, vedergli all’occhiello il fiore simile a quello che ella portava nei capelli, imporgli ogni tanto qualche lieve capriccetto, vederlo ubbidire con un grazioso sorriso: ricevere quella corte seminascosta, squisita, deliziosa, che non le imponeva alcun obbligo. La gente attorno mormorava: Una bella coppia! I parenti non dicevano di no.
Nel caso di Flavia la fatalità si chiamava Everardo, ed abitava al quinto piano del palazzo, dove dimorava anche essa. L’intelligente lettore avrà capito che si tratta d’un poeta, ed è la verità; ma debbo aggiungere, per diminuire la cattiva impressione, che i suoi versi erano buoni, sebbene non fossero letti da alcuno. Egli apparteneva ad una classe che si trova numerosa in tutti i grandi centri; poichè in tutti i grandi centri giunge ogni anno una schiera di giovani buoni e volonterosi. Hanno la testa piena di meravigliose fantasie e di progetti stupendi, il cuore riboccante di affetti ed il borsellino poco riboccante di scudi; al povero e buon papà rimasto in fondo al suo paesello hanno promesso chi di frequentare Cujacio, chi di presentarsi ad Euclide, chi di annodare stretta relazione con Tiesot ed Orfila. Promesse; ma vengono i poetici allettamenti delle lezioni della letteratura, ci si mettono in mezzo le associazioni giovanili, i circoli letterari, le vivaci discussioni sull’arte; tutto questo fermenta insieme agli ardimenti dei venti anni. Allora… allora si forma la classe degli spostati e ne vien fuori il giovane pallido, scettico, anelante ad uno scopo cui quasi sempre non gli basteranno le forze, rôso dalla smania di giungere, divorato dall’ambizione, incapace più di ritornare sulla vecchia e diritta strada, torturato da una lotta ineguale che lo rende profondamente infelice. Ed il papà è sempre laggiù e lavora, e si sacrifica e s’illude che il figliolo sarà contento, avrà una posizione… e non sai quale sia più degna di compassione: se la dolce illusione del vecchio o la desolata sfiducia del giovane. Così nascono i genii, si dice, lo so; ma per un genio che nasce, migliaia di mediocri agonizzano.
Sarebbe meglio che il genio nascesse altrimenti.
Questa qui è la storia di Everardo: uniteci un cuore passionato, un sistema nervoso irritabile, un paio di occhi ardenti, ed avrete un ritratto somigliante. Come è naturale, incontrò Flavia per le scale marmoree, una giornata di autunno scuriccia, con una luce diffusa e triste; ma Flavia era bionda e sorrideva. Notate, ella discendeva e parve al povero poeta che quella fanciulla scendesse dall’alto, fosse un raggio di luce rosea, scherzosa, smarrito in quell’imbrunire: egli non fiatò, non si mosse: ella passò, ma portandosi via l’anima di un uomo.
Non racconto come il rivedere Flavia non fece che innamorare sempre più Everardo, come egli descrivesse in una lettera di fuoco tutto questo amore e quante e quali difficoltà dovette vincere, prima che la lettera capitasse nelle manine di lei: basti dire che ottenne l’intento. Flavia lesse due volte le brevi parole e rimase pensosa, pensosa, con le sopracciglia corrugate e la fronte seria: la lettera le bruciava le dita come carbone acceso, eppure non la riponeva. Pareva che quelle parole fiammeggiassero, sfiorassero la mano, e penetrassero nelle vene; sentiva un gran calore invaderla tutta, giungere al cuore ed al cervello, precipitarle il sangue; sembrava d’essere in pieno, meriggio in una luce splendida ed abbagliante. Nessuna sensazione di dolore; anzi godeva di quel ricco e dolcissimo incendio in cui le si struggeva l’anima. Pensò a Leone, pensò ad Everardo: li amava.
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Fine della prima parte
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